- Dates5 May 2017 - 24 June 2017
- Artists
I always find it hard to write about my work.
True, I could talk about the techniques and media, the juxtapositions of different materials, or the spatial layout of the exhibition, but that would never quite hit the mark.
I am interested in working on the image. In Jung’s view, the image contains a lumen naturae, a brightness that has no need of anything else. It is the image that speaks, and it cannot be tamed with words.
Talking about Giacometti, Jean Genet wrote: “Giacometti works neither for his contemporaries, nor for future generations: he makes sculptures that ultimately enchant the dead.” I find Genet’s intuition quite moving and, while setting up the exhibition, I found that, without realising it, I was repeating it to myself.
I recently read the transcription of a conference given by Giorgio Caproni on poetry in 1982, and I noted down these words: “And this leads us to another paradox: that the further the poet ventures into his own Self, the more he fends off any facile accusations of solipsism, precisely because in that deepest of all places in his Self is the We. A self that shifts immediately from singularity to plurality. And it is precisely this that is, or at least should be, the social, civil function of poetry.”
Francesco Barocco, Torino, 20 April 2017
È sempre difficile per me scrivere del mio lavoro.
Certo, si potrebbe raccontare delle tecniche utilizzate, degli accostamenti di materie diverse, dell’impianto spaziale della mostra, ma in ogni caso si mancherebbe il bersaglio.
A me interessa lavorare sull’immagine. Per Jung, all’interno dell’immagine, c’è un lumen naturae, una luminosità che non richiede nient’altro. L’immagine parla e non la si può addomesticare con le parole.
A proposito di Giacometti, Jean Genet scrive: “Giacometti non lavora né per i suoi contemporanei, né per le generazioni future: fa delle sculture che alla fine incantano i morti.”. Trovo commovente l’intuizione di Genet, durante la preparazione della mostra spesso, senza accorgermene, la ripetevo fra me e me.
Ho letto di recente la trascrizione di una conferenza che Giorgio Caproni tenne sulla poesia nel 1982 e mi sono appuntato questo passaggio: “E s’arriva così all’altro paradosso: che quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi. Un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale, civile della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo.”
Francesco Barocco, Torino, 20 April 2017